2 febbraio 2011
La Fiom è con Vendola, il Pd scelga il riformismo.
La manifestazione promossa dalla Fiom rappresenta una straordinaria
opportunità per il Partito democratico – forse l’ultima -, stretto così
com’è dalle sue mai risolte contraddizioni. Gli equilibrismi e il
malcelato collateralismo prodotti dalla sua classe dirigente hanno di
fatto reso ostaggi i democratici della loro incapacità di darsi un
profilo politico chiaro, ambizioso e strategicamente valido.
La piazza di Roma, ricca di retorica massimalista, conferma che
quella fascia di elettorato è ormai di appannaggio del narratore
Vendola. La partita per il Pd è persa, rincorrere quell’elettorato non
solo realizzerebbe una sovrapposizione politica debole (e perdente) per i
democratici, ma marcherebbe definitivamente la vocazione
all’opposizione di un partito che ambisce al governo del Paese. E’
giunto il momento di sciogliere questo nodo gordiano e forse soltanto
accettando questa realtà il Pd potrebbe finalmente riuscire ad occupare
lo spazio riformista – che a parere di chi scrive è ampio in Italia – di
cui la politica italiana ha bisogno.
Per quanto riguarda la questione del lavoro, nell’attuale scenario
politico italiano assistiamo al consolidamento di due posizioni
speculari ai rispettivi campi politici. Da un lato c’è la linea
“pilatesca” del governo fatta di annunci, di azioni e omissioni tendenti
a esasperare le contrapposizione tra i diversi soggetti protagonisti
della realtà produttiva italiana. Un non governo basato sul “divide et
impera”, i cui frutti migliori sono la disoccupazione dilagante,
l’assenza di un seria politica di sviluppo e l’annullamento della classe
media.
Sul fronte opposto c’è la linea sposata dalla Fiom-Cgil, sostenuta
politicamente da Vendola, strumentalmente dagli opportunisti alla Di
Pietro, e in silenzio dagli “speranzosi” esponenti del Pd che non si
rassegnano all’idea di non rappresentare più un determinato
elettorato. Questa linea politica si caratterizza per la mistificazione
della realtà, per una lettura di essa con gli occhi ideologizzati e di
partito, e per un’interpretazione dei fatti strumentale al proprio
disegno politico. Una linea della contingenza, che in ogni caso si
occupa del problema ma non della soluzione ad esso.
Bene, tra queste due opzioni politiche, l’Italia ha bisogno di una
terza modalità di azione che potrebbe e dovrebbe essere quella promossa e
sostenuta politicamente dal Pd: la linea del riformismo reale. Questa
posizione per essere spiegata necessita però di una premessa.
L’Occidente sta scoprendo che aver creato intenzionalmente o aver
avallato tacitamente per ragioni geo-economiche condizioni vantaggiose
per la pruduzione a basso costo di manodopera, è come aver scientemente
deciso di impostare diversamente lo sviluppo globale rinunciando di
fatto alla specificità “occidente”. Quest’impostazione sta portando
all’assurda conseguenza che non dovranno essere i paesi in via di
sviluppo a progredire, ma i paesi sviluppati a regredire. Una ricerca
dell’equilibrio al ribasso, sia sul piano dei diritti che su quello
materiale. Queste sono le ragioni dell’economia, le ragioni politiche
sono fuori da questo processo. Si è voluto marginalizzare la politica
quale luogo di mediazione degli interessi, confinandola ad un ruolo di
arbitro senza potere di intervento.
Nel caso Italia – che non è isolato ma inserito nel contesto globale
poc’anzi evidenziato – la concorrenza “sleale” dei paesi in via di
sviluppo dovuta all’assenza di normative a garanzia dei lavoratori ha
posto gli imprenditori dinanzi ad un bivio: sopravvivere,
delocalizzando o eventualmente eludendo la tassazione nelle forme più
“sicure” laddove si opti per mantenere la produzione in Italia, oppure chiudere per incapacità a concorrere con le attuali condizioni di mercato.
A questa condizione binaria il Partito democratico dovrebbe offirire
una soluzione o quantomeno fare delle proposte, quali: tassazione
consistente dei prodotti realizzati nei paesi dove non ci sono garanzie
per i lavoratori in linea con gli standard europei (un sano
protezionismo è in molti casi necessario), salario minimo europeo
obbligatorio da calcolare utilizzando come benchmark i paesi
dell’Eurozona, sgravi fiscali per chi non delocalizza,
sburocratizzazione della P.A. e dell’attività imprenditoriale, riduzione
del costo del lavoro e della pressione fiscale, ridefinizione dei
contratti di lavoro previsti dalla legge 30/03 alla luce dell’uso
distorto che si fa di essi.
Partecipare ma non aderire ad una manifestazione non risolve i
problemi del lavoro, non serve a definire un proprio profilo politico.
Manifesta invece la debolezza di un partito che non riesce a trovare il
bandolo della matassa. Se questo dovrà essere il Pd è meglio a questo
punto decretarne la morte. L’agonia non può più permettersela né il
centro-sinistra né in generale l’Italia.
Il Pd attualmente è in un cul de sac: o elabora e applica una nuova
strategia politica o continuerà a rimanere ostaggio della contingenza
regalando a Vendola & co. il tema del lavoro, a Di Pietro quello
della giustizia, ai Socialisti e ai Radicali quello della laicità dello
Stato e al centro-destra il governo del Paese.
Antonio Bruno Pubblicato su the Front Page il 17 ottobre 2010
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