2 febbraio 2011
No leader, no party.
In una squadra di calcio solitamente tutti gli uomini della rosa
ambiscono a un posto da titolare, ognuno di loro prima e durante la
partita spera di essere decisivo, di fare goal. È la legittima
aspirazione di chi vuole essere protagonista. Nel calcio, così come in
qualsiasi ambito dove le qualità e le capacità del singolo vengono messe
a disposizione della squadra, c’è chi può fare la differenza. In
politica il protagonismo e l’ambizione, pur potendo sfociare
nell’individualismo, sono caratteristiche fondamentali di un politico di
razza.
Se guardiamo alla condizione in cui versa il Partito democratico ci
rendiamo conto che protagonismo e ambizione soventemente vengono
declinati solo per fini interni, per conquistare le leve dell’apparato,
raramente per ambire ad un ruolo di leader politico per la nazione.
L’inespressa aspirazione alla guida del governo e la difficoltà a essere
(e il dover essere che condiziona la proposta politica) accettati dall’establishment
economico e politico italiano sono forse i limiti maggiori che mostrano
la debolezza della classe dirigente democratica. Problema non di oggi
ma che ben presto si manifestò quando nel 1996 si trovò in Romano Prodi,
un tecnico organico alla politica, l’uomo in grado di rappresentare la
sintesi nello schieramento di centro-sinistra e di offrire garanzie ai
diversi poteri italiani e internazionali. Stessa scena nel 2006, stesso
risultato. Con il tecnico si vinse, con i politici – Rutelli nel 2001,
Veltroni nel 2008 – il centro-sinistra ha perso nettamente. Subito dopo
l’elezione di Bersani a segretario del Pd, lobbies politico-editoriali
egemoni nel centro-sinistra italiano hanno iniziato il tam tam della
necessità del papa straniero, di fatto delegittimando l’azione politica
di chi da statuto e in qualità di segretario dovrebbe essere il
candidato premier del Pd.
Orbene, minata l’ipotesi Bersani, che a parer di chi scrive già era
debole di suo, l’unica possibilità ancora a disposizione del Pd – prima
che Vendola lanci l’opa sui democratici – potrebbe essere una
competizione politico-programmatica per la candidatura a premier tra
Chiamparino e Letta. Quest’ultimo, eterno giovane, ma ormai non più il
solo, dovrebbe dimostrare quanto vale indipendentemente dall’anagrafe e
dalle parentele. Il Pd, giustamente, chiede competitività e produttività
alle imprese italiane, ma in primis risulta essere poco competitivo e incapace di produrre una classe dirigente autonoma e ambiziosa.
Gli esempi condizionano negativamente i giovani dirigenti cooptati,
troppo timorosi di disturbare le manovre del capo, poco inclini a
mettersi in gioco con proprie idee, troppo speranzosi di entrare in
lista. L’attuale classe dirigente del Pd sconta non soltanto la
formazione in un partito che non ha mai potuto esprimere il presidente
del Consiglio, ma soprattutto l’esser figlia del sistema dei partiti
della Prima repubblica. Al tempo, così come dovrebbe accadere oggi –
siamo o non siamo una repubblica parlamentare? -, i governi si facevano
in Parlamento, si faceva politica.
Se la politica non torna alla normalità, ci sarà spazio soltanto per i
partiti dei leader (vedi Vendola-Sel, Fini-Fli, Berlusconi-Pdl,
Casini-Udc, Di Pietro-Idv) e non per leader di partito. In questo quadro
il Pd non ha senso, gioca a poker con le regole della scala quaranta. Antonio Bruno Pubblicato su the Front Page il 16 novembre 2010
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